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L’Io ospitale

 Relazione di FAUSTO NEGRI                                                  Borghetto, 8 dicembre 2011

Premessa. Viviamo in un periodo storico di grave crisi. Alcuni lo paragonano alla caduta dell’impero romano. Il termine crisi, nella lingua giapponese, significa però sia “rischio”, sia “opportunità”. In concreto, noi siamo già dentro il nuovo: la fase planetaria. Stiamo prendendo consapevolezza che siamo tutti passeggeri di un’unica nave. Potremo evitare il rischio di essere come il Titanic solo se orienteremo la nostra prassi secondo le virtù della ospitalità (siamo tutti ospiti su questa terra), della convivenza (abitiamo la stessa casa comune), della tolleranza (rispetto delle differenze), della commensalità (sediamo tutti all’unica mensa… Siamo nell’era della ecologia integrale). Se queste virtù si trasformeranno in abitudini e in atmosfera culturale creeranno le condizioni per una globalizzazione necessaria e salvatrice. Attraverso uno dei miti più belli della tradizione greca, quello di Bauci e Filemone, parleremo della ospitalità incondizionata: diritto e dovere di tutti. Il racconto parla di una ospitalità perfetta, “mitica” appunto, diversa dalla nostra sempre condizionata.
Il mito dell’ospitalità
Giove, padre creatore del cielo e della terra, e suo figlio Mercurio, principio di ogni comunicazione, una volta vollero vestirsi da poveri per scendere nel regno dei mortali: intendevano vedere come andava la creazione che avevano messo in moto. Si vestirono come due poveri viandanti e passarono per molte terre, incontrando molta gente; ma nessuno stendeva loro la mano. Ciò che desideravano di più era acqua fresca da bere, un piatto caldo, acqua tiepida per ristorarsi i piedi e un letto per riposare.
Finché un giorno giunsero in Frigia (Turchia), luogo in cui erano confinati i ribelli e i criminali. Lì viveva una coppia molto povera. Lui si chiamava Filemone (in greco “amico e amabile”), lei Bauci (“tenera e delicata”). I due erano anziani e abitavano in una piccola casa su un’altura. Vivevano in armonia perché facevano tutto insieme. Chi comandava era anche chi ubbidiva.
Quando i due dèi giunsero alla capanna, Filemone sorridendo, senza molte cerimonie, li invitò ad entrare: «Avete l’aria di gente stanchissima e affamata, forestieri. Venite nella nostra casa. È povera, ma pronta ad accogliervi!». Bauci offrì loro due sgabelli e andò alla fontana per attingere acqua fresca. Filemone ravvivò il fuoco della notte, quasi spento. Baci, poi, con l’acqua intiepidita cominciò a lavare i piedi a Giove e Mercurio. Filemone si recò nell’orto a raccogliere legumi e verdure, mentre Bauci prendeva l’ultimo pezzo di lardo loro rimasto. Stavano per sacrificare anche l’unica oca che avevano, quella che faceva da guardia alla casa, ma gli dèi lo impedirono.
Fecero cuocere le verdure con il lardo. Bauci cosparse dell’olio sulla zuppa, poi prese alcune uova e le mise sotto la cenere calda. Filemone si ricordò del vino, conservato come farmaco. Erano avanzati ancora alcuni pezzi di pane vecchio, che scaldarono accanto al focolare.
Apparecchiarono la tavola e, per non creare imbarazzo ai due pellegrini, anche Bauci e Filemone si sedettero a tavola, benché avessero già mangiato. Conversando, tra loro si creò un buon clima. Poi i due anziani presero delle noci, dei fichi secchi e datteri da una cassa, e li servirono come dessert. Alla fine, i due offrirono agli ospiti i loro letti.
All’improvviso si scatenò una tempesta. I due sposi si alzarono in fretta per soccorrere i vicini. Fu allora che, in un batter d’occhio, la capanna divenne uno splendido tempio. Giove e Mercurio rivelarono la loro identità. Giove e Mercurio esaudirono i desideri dei due: servire gli dèi nel tempio e poi morire insieme. Alla fine della loro esistenza, Filemone fu trasformato in un’enorme quercia e Bauci in un frondoso tiglio. Le loro cime e i loro rami si intrecciavano. E così abbracciati, restarono uniti per sempre.
I vari momenti del mito
- Il mito di Filemone e Bauci spiega anzitutto dove viene esercitata l’ospitalità: nelle circostanze più avverse, n Frigia, luogo di persone rozze e feroci.
- il mito spiega poi chi sono gli ospitanti: persone laboriose ma non miserabili, che vivono tra di loro in grande armonia.
- in terzo luogo, il racconto spiega chi sono coloro che chiedono ospitalità: sconosciuti, pellegrini, poveri, stanchi e affamati. L’ospitalità si definisce a partire dall’altro.
- viene poi spiegato l’atteggiamento dei pellegrini. Quello che più dispiaceva loro era di non essere nemmeno guardati. Questo atteggiamento provoca sempre una sofferenza interiorizzata e sorda. Lo sguardo è riconoscimento della presenza dell’altro.
- in quinto luogo il mito spiega l’atteggiamento di chi offre ospitalità. Questa suppone il superamento di pregiudizi e una fiducia quasi ingenua.
- il racconto poi spiega come si volge concretamente l’ospitalità. L’accoglienza porta alla luce la struttura fondamentale dell’essere umano. Noi esistiamo perché siamo stati accolti senza riserve dalla Madre terra, dai nostri genitori, da parenti ed amici, dalla società. Il peggiore sentimento è il sentirsi rifiutati ed esclusi: si fa l’esperienza psicologica della morte. L’accoglienza è vita per i viandanti.
Le dimensioni dell’ospitalità
- Sensibilità di fronte ai bisogni dei viandanti, bene espresse con le parole: «Avete aria di gente stanchissima e affamata». Il “pàthos” o emotività è l’esperienza-base dell’essere umano, quella che oggi viene chiamata “intelligenza emozionale”.
- Com-passione: è l’arte di cogliere l’altro nella sua situazione, non abbandonandolo nella sua sofferenza.
- Accoglienza: frutto della sensibilità e della compassione. Si esercita con vari gesti:
- Invito a sedersi; offerta di acqua fresca; accensione del fuoco (offrire calore umano); lavare i piedi (grado sommo di accoglienza e servizio… Gesù laverà i piedi e comanderà: «Anche voi dovete lavare i piedi gli uni degli altri»); dar da mangiare: pane, legumi, uovo, olio, lardo… (commensalità); dar da bere vino (simbolo di festa e di gioia nello stare insieme); servire con una certa sovrabbondanza: il dessert, con datteri e fichi secchi, dà un carattere di straordinarietà al pasto. I due ospitanti vorrebbe anche sacrificare l’oca: trattasi di un’ospitalità illimitata e senza preconcetti; offrire il letto: consegnare la propria intimità, spogliarsi come segno di fiducia verso l’altro.

Concludendo. Dicevamo che il mito – sostanzialmente – rivela la struttura base dell’universo. Essa è costituita da una rete di rapporti reciproci e da catene di solidarietà. L’universo si regge e continua ad espandersi grazie a chi è ospitale.
Dietro i viandanti poveri, stanchi ed affamati si nascondeva il Divino, che poi si rivela in tutta la sua gloria. La capanna si trasforma in un tempio glorioso. I buoni ospitanti sono trasformati in sacerdoti (cioè in mediatori tra il divino e l’umano). Tutto ciò che è toccato dalla divinità viene anche reso eterno. Filemone e Bauci restano nella storia come prototipi esemplari dell’ospitalità, della convivenza e della commensalità. Vengono trasfigurati in vigorosi alberi, i cui rami e le cui cime si intrecciano in una carezza senza fine, in un amore che dura per sempre.
Questo mito ci parla ancora, e ci ispira idee e valori fondamentali per costruire la casa comune, nella quale tutti possano entrare per sentirsi dell’unica razza e per formare l’unica autentica famiglia: quella umana! Questo mito è un po’ come l’orizzonte. Tu fai un passo in avanti e lui si sposta di un passo; ne fai cento, e lui si sposta di cento. Allora, a cosa serve l’orizzonte? A camminare, ecco a cosa serve! Camminiamo!!!

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